Prosegue il «Viaggetto in Maremma» di Antonio Benci: Orbetello e Argentario

La terza parte trascritta qui sotto del Viaggetto in Maremma di Antonio Benci (1783-1843) interessa i territori più lontani, in senso stretto e metaforico, dalla città dell’autore, Livorno.
Infatti, se la prima sezione di questo piccolo diario di viaggio ha riguardato l’itinerario da Livorno a Massa Marittima e i relativi soggiorni (21-23 marzo 1830) e la seconda quello da Massa fino a Grosseto (24-25 marzo), la terza descrive Orbetello, il Monte Argentario e le rovine di Ansedonia.
Anche in questa ‘traversata’, Benci, con la sua peculiare sintesi letteraria e con spirito indipendente e orgoglioso, ricorda territori bellissimi e poveri, gli stessi che, quasi a contrappasso, oggi sono luoghi di innegabile splendore, prosperi e bene organizzati. Parliamo di Orbetello, Santo Stefano e Porto Ercole, ambito paradiso dei turisti.

[Viaggetto in Maremma 1830 - terza parte]

“Alla barca dell’Albegna, o delle Saline, comincia il gran circolo d’Orbetello. Comincia un grandissimo semicircolo di terreno renoso con macchioni (chiamato in Toscana tombolo) che va tutto piano, e pochissimo più alto del mare, come due gran bracci al monte Argentaro, tutto in linea davanti Orbetello. Da questa barca, o lì vicino, è un’apertura per cui il mare di fuori questo tombolo entra nel mare interiore d’Orbetello. Questo mare interiore, o stagno d’acqua di mare, che non é mai più profondo di 2 uomini d’acqua, e ha un’altra apertura verso il luogo detto il Pino, dove si vede l’acqua correre di nuovo al mare. In questo sbocco dell’acqua vi sono tre divisioni di canali, per ristringere il passo a’ pesci che dal mare esteriore entrano piccoli nel mare interiore, quivi ingrassano, e son presi ne’ canali: affittate queste peschiere per 18 mila lire, ed ottimo il pesce.
Dalle Saline (saline ora non ve ne sono) si gira al centro del tombolo [il cordone litorale di Giannella] (questo tombolo ne’ due bracci non è mai più largo d’un miglio e ristringe a un ottavo di miglio) dove è una lingua stretta di terra che nel mare interiore contiene Orbetello. Bella campagna quivi, e Orbetello è di posizione magnifica. Peccato che qui non siano buone locande, che vi sia miseria e nessun mezzo di prosperità, poiché il mare interiore non solo è una laguna, non offre nemmeno un facile trasporto, dovendo andare in barche piatte per poi fare un po’ di tragitto per terra. Napoleone voleva tagliare un gran passo al mare, e Orbetello diventava un gran porto.
Arrivato a Orbetello senza buon indirizzo di locanda, ho veduto essermi migliore alloggio quello d’una Marianna, detta la Zoppa, vecchia furbissima, che parla dolce, serve bene, e fa i suoi interessi. Ella aveva grande sala con due alcove, tutte insieme. Ho preso queste tutto per 5 paoli il giorno. Ma che! Avevo permesso che per oggi vi pranzassero altri! Affiddeddreci! [sic] Questi hanno pranzato a notte. Ed io tornato da una gita, ho dovuto stare intanato per la strada!
Questa gita è stata per il mare interiore, in barca piana con due gran remi posti sopra una trave che traversa la barca a lunga distanza. Vento contrario. Mi dirigevo alle peschiere o canali che sono al confine del braccio destro del tombolo, luogo detto il Pino. Da Orbetello al Pino sono circa tre miglia: v’ho messo per il vento due ore. E si paga una lira per andare, una lira per tornare.
Giunto al Pino si fa tre o quattro miglia di terra girando più baie nel mare esteriore per andare a Santo Stefano. Vi sono barrocci sulle cigne al Pino: si paga una lira per andare, una lira per ritorno, e si può anche andare e tornare per due paoli. Io ho pagato e dato mancia perché sono stato servito bene. In due ore sono andato a Santo Stefano e tornato. V’è il forte di Santa Liberata, dove sono antiche piscine: le dicono conserve di pesci: e qui può essere, perché v’è la pesca massime del tonno. Questa si fa davanti Santo Stefano: e oggi hanno preso 57 tonni, che mandavano a Livorno con barche a remi, impossibile oggi la vela.
Santo Stefano è posto magnificamente, tutto in monte, e sulle rive del mare davanti a Talamone. Pare ivi il mare un immenso lago. Paese di commercio, che lo leva a Orbetello. V’è dogana. E davanti la dogana, sotto tettoia, v’è pure due caldaie, dove lavano e imbiancano il tonno (per mezzo di fuoco e acqua) prima di metterlo sott’olio.
Santo Stefano è piccolo, e di brutto e rozzo fabbricato, tranne un gran casamento, che ivi passa per palazzo, posto in mezzo al porto.
Il porto è una baia quasi circolare. Tutta questa costa è guarnita di forti. Sulla cima del monte Argentaro sono torri per dar segnali.
All’opposto braccio (tombolo circolare a sinistra ad Orbetello) [il cordone litorale di Feniglia] si va a Port’Ercole dove anderò domattina. Anche ivi è apertura stretta tra due mari. Anche ivi si può dalle Saline andare per terra, per rena, come a Santo Stefano. Ma io v’anderò per il mare interiore (2 ½ miglia) colla mia barcaccia piatta e i gran remi: dovendo poi fare a piedi tre miglia di strada per arrivare a Port’Ercole. Dal Pino a Santo Stefano è via fatta calessabile, perché per salite e scese. Ma di là non c’è ancora. E si farà una via, non anche aperta, tra Santo Stefano e Port’Ercole lungo le falde d’Argentaro. Né Port’Ercole, né Santo Stefano non si vedono da Orbetello: sono ne’ mari esteriori. Si vedono da Orbetello le terre sulla vetta, e un convento, e il romitorio [dei Padri Passionisti] a mezzo monte e più su.
Questi luoghi sono gli antichi Presidii: razza di romani e napoletani. Domattina vedrò meglio che Argentaro che sta gran parapetto a Orbetello. È poco culto, boscoso, e con poche case, rarissime, anzi quasi niune case. E dalla parte opposta, verso il mare, è, mi dicono, senza cultura e abitanti, tranne i forti. Di là è l’isola d’Argentaro, e l’isola di Giannutri. Qui v’è rovina antica.
Ho saldato il vetturino per sei giornate, tutta questa settimana, oggi sabato: regalandogli anche i passi delle barche, che se gl’avesse egli pagati, perdeva tutta la giornata.

27 marzo domenica di Passione. Alle 8 mi son imbarcato, e come ieri avevo il vento contrario, andando a ponente; oggi ho avuto il vento contrario andando a levante.
I marinari tutti possono andare al Pino, portando però gratis i militari. Il passo da Orbetello all’Argentaro verso Port’Ercole è affittato. La tariffa al Pino è 6 crazie; all’altro 4.
Io pagando assai più, non ho neppur soddisfatto al desiderio de’ marinari. Non hanno altra speranza che ne’ viaggiatori.
Rettifico due errori da me scritti. Non v’è passo d’acqua dalla parte di Port’Ercole, dal mare esteriore all’anteriore. V’è un pertuso, ma per appianare la via. Quando entrano o escono le acque dall’un mare all’altro, m’ha detto il marinaro d’oggi che ciò si fa per le Saline come al Pino: mi manca l’esperienza per sapere ciò che vero.
Alle 9 ero in terra di là dallo stagno. Non vi sono che 2 miglia poi a Port’Ercole, e l’ho fatte a piedi. Si va per un miglio e mezzo tra cattivi boschi, e terre inculte, salendo e scendendo. Poi si trova un Vallone coltivato che piace, e si sale a Port’Ercole.
Bellissima situazione. Un bel seno di mare tra due monti: sopra un monte è Port’Ercole, sopra l’altro il forte Filippo, fatto da Filippo II [re di Spagna, † 1598]. Per vedere i forti bisogna pigliar la licenza dal comandante militare che risiede a Orbetello.
Io ho preso questa licenza, che passata al comandante di Port’Ercole m’ha ammesso per tutto.
Port’Ercole è in monte, ed ha su alto la rocca, tagliata in molti luoghi nel masso. Da questa rocca si vede l’isola di Giannutri. Il forte Filippo è quadrato, e dà una bella vista verso Orbetello. Da tutti e due i forti si vede la costa romana. Il mare gira con le sue coste innnanzi a questi luoghi, e offre di faccia la terra di San Pancrazio, sopra cui sono le rovine di Ansidonia, detta da altri Manfredonia [sic].
Sotto il forte Filippo sulla marina è un casale che chiamano le Grotte. Nel vallone è San Rocco. La sanità è sotto Port’Ercole. Port’Ercole è un orrido casale, mezzo rovinato. Sotto il forte Filippo è presso la marina il forte di Santa Caterina. Sotto Port’Ercole è il forte di Santa Barbara. La Rocca di Port’Ercole, e il forte Filippo sono dominati da un forte che chiamano per la sua figura, la Stella: forte che non è mai stato preso dal nemico, dicono in questi luoghi. Io non sono andato a veder la Stella perché ho poca premura di veder le catene dell’umanità, e niente ho visto di rimarchevole in queste fortezze. Oltreché la Stella offre pochi punti più di vista.
Sarei andato bensì al forte dell’Avoltoio, che è più alto e su di un monte che sporge fuori della linea del monte Argentaro, e da cui avrei potuto vedere tutta la configurazione del monte nella parte del mare aperto; ma v’era caligine, e sono ritornato alla marina per rimbarcarmi, e colla vela sono tornato in un quarto d’ora a Orbetello: fatto tutto questo giro in 4 ore. A mezzogiorno facevo colazione per andar poi col mio calesse a Ansidonia.
Il monte Argentaro chiamasi propriamente quella parte dov’è il convento: e sopra del convento è il romitorio de’ frati; e sopra del romitorio è la gran vista nell’uno e nell’altro mare. Ma per la caligine ho rinunciato.
È però una medesima catena di monti, o un monte solo da Port’Ercole a Santo Stefano. Ed ora si fa la via dal Pino a Port’Ercole. La parte del monte a mare aperto è una continuità di baie. Fra il forte Filippo e Santa Caterina v’è una bella rupe.
A Port’Ercole ho trovato un caffè, quasi come la capanna al puntone di Scarlino. Uno stanzone con archi, e gran parte a uso di camera con letti, il resto a uso di caffè e di cucina.
Ieri sera non potei avere la camera perché un ingegnere vi dava pranzo. Questa mattina ho preso io la barca d’un altro ingegnere, ed anche il suo mantello lasciato in barca (che m’ha fatto gran comodo perché io ero sudato, e avevo da espormi al vento), dovendo poi esso colla sua compagnia aspettare che ritornasse da Orbetello al punto dell’imbarco.
A un’ora dopo mezzogiorno sono partito da Orbetello girando tutto il lago per terra, e pigliando la via di Roma che è pessima, appena si lascia la via verso Grosseto. E avendo sbagliato, in vece di fermarmi al cancello che seguita la marina verso la terra di San Pancrazio, sono andato col calesse per salite e scese orribili nella via romana per più d’un miglio e mezzo, sbagliando la strada e incerto di quel che fare. Ho visto al fine una casa, e accorrendomi nel folto bosco, una sposa m’ha chiamato un vaccaro, che m’ha finalmente condotto a l’Ansidonia.
Per far bene questa gita bisogna andare per la via di Grosseto fino alla chiesina della Madonna della Neve, che chiamano qui la Madonna in Mezzo alle Vigne: e poi seguire col calesse la via di Roma (cioè sia la via che anderebbe a Civitavecchia) fino a che questa via non si separa dallo stagno d’Orbetello per entrare nella montagna; ossia fino al punto che si trova il braccio di terra che va a Port’Ercole. Quivi è una casina rustica. Qui è bene lasciare il legno e seguitare a piedi. Dopo poco più di un miglio e mezzo si sale in cima alle rovine d’Ansidonia. Dalla Casina a Orbetello sono cinque miglia.
Io son salito a Ansidonia per entro a’ monti, e il caso m’ha procurato uno ben pratico delle rovine, un buon vecchio che è nato in Caprese [Michelangelo], e viene qui ogni inverno dal Casentino per fare la carbonella. Va via a maggio perché l’aria allora comincia a impestare. Egli ha accompagnato anche i granduchi.
Senza uno ben pratico non sì dee andare a Ansidonia. Non vi sono che rovine in bosco. Grandi e ciclopee le mura della distrutta città. Vedonsi le antiche porte che pare si chiudessero con un caterattino, vedendovisi le incanalature. Restano le vestigie di molte fabbriche, non nulla di distinto. Ho veduto un edifizio, i cui muri hanno tra molte pietre un filare di mattoni. E riscendendo poi alla casina, ho veduto un edifizio che pare essere stato un sepolcro. È diviso in due parti. L’anteriore potrebbe essere l’ustrino [luogo dove i parenti bruciavano il corpo del defunto]: e l’interiore ha tutt’intorno buche rotonde, piccole, con un arco di mattoni in giro, che si internano nel muro a perpendicolo come a cono. Vi potevano mettere le urne delle ceneri.
Pare che la città fosse grande, e scendesse dall’altura fino a mezzo il mare. L’edifizio, sepolcreto, è proprio a mezzo monte, e questo debbe esser fuori la città. Doveva essere una città come Volterra, sulla vetta, benché non sì alta. Da mezzo monte in giù non v’è traccia di muri di città, mentre tutte le cime, e sono tre, che chiamano il Belvedere, la Regina, e il Baluardo, son tutti entro le mura, anzi sulle mura. V’è bella vista da questi tre punti. Vi sono molte buche che mettono in sotterranei a volta, che chiamano ora grotte, e che forse sono case sotterrate, benché le mura ammettono poco, e la natura dal monte (in cui sono può ruinare la soprapposta terra che manca, non essendovi luoghi più alti) non ammette punto questi sotterramenti. Io non sono sceso in questi sotterranei, perché non avevo meco né torce né lumi.
In poco tempo sono ritornato a Orbetello, e stracchissimo son venuto alla locanda del Cigno dalla mia zoppa, Marianna Treccioni, che mi tratta veramente bene. Serve benissimo, m’ha fin lavata una pezzola da naso che avevo lasciata attaccata a una sedia. Ho fatto i conti con lei, e non m’ha fatto pagare niente caro, per cui le do di mancia 5 paoli. Domani riparto d’Orbetello. Passata la prima barca delle Saline, vo fino a una fonte, detta Fonte Branda [Fonteblanda], tre o quattro miglia più là delle Saline, e di quivi per una strada di tre miglia vo a Talamone, donde ritornerò a Fontebranda per poi seguitare la via di Grosseto, fin dove non lo so ...”. (continua)

Trascritto da Paola Ircani Menichini, 11 aprile 2024. Tutti i diritti riservati.




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